Il designer oggi!
Basta guardare la fotografia, un po’ sbiadita ma vivida, dei fratelli Castiglioni all’opera mentre lavorano ad Arco, per capire quanto è cambiato il design. Professione di nicchia un tempo, oggi termine inflazionato, utilizzato in ogni campo, dal food al fashion.
Ma cosa vuol dire oggi fare il designer? Lo chiediamo ad Andrea Branzi, architetto e designer, docente al Politecnico di Milano.
Come lei precisa nella premessa del libro, quali sono le attuali professioni del designer?
«Ci sono un’infinità di attività che vengono chiamate con il termine design, e corrispondono a una domanda molto estesa del mercato industriale. Un mercato che ha bisogno di innovazione, sotto molte forme, dalla funzionalità alla sostenibilità. Il design risponde a promozione, identità, immagine. Il designer è anche chi si occupa di gastronomia, look, nautica, automobili… Per questo si registra la crescita di scuole, università (master e altro) che hanno trasformato il design da professione d’elite a mestiere di massa. Basti pensare che, negli anni Sessanta, i designer a Milano, già allora considerata la capitale del design, erano una ventina. E le industrie erano una dozzina, per un vero mercato di nicchia e prevalentemente legato all’arredamento. Oggi invece i numeri sono enormi, le mansioni sono diverse. C’è un’attitudine di un’intera nuova generazione, più spontanea, non su commissione, più autonoma. Nel Fuorisalone, evento collaterale del Salone del mobile che ha coinvolto la città di Milano, c’erano più di 400 mostre, che a volte con il design propriamente inteso non c’entravano molto».
Il design inflazionato. Un vantaggio o uno svantaggio?
«È un vantaggio. È una trasformazione storica. Il design cresce come qualità e numero. Un dato pericoloso? No, è una nuova situazione. Si deve prendere atto».
Tre generazioni di designer a confronto. Cosa li accomuna e cosa li differenzia?
«Tre generazione di design: la prima quella dei Maestri (da Gio Ponti a Mario Bellini), a cui si deve il fenomeno del design italiano (designer+imprenditori); la seconda è quella che ha fatto tesoro della sperimentazione e delle avanguardie, come gruppo Memphis e Domus Academy; la terza composta dalla “generazione di mezzo”, da Alberto Meda a Sfefano Giovannoni, per arrivare ai nuovi giovani di oggi. In comune? L’idea che il design non è solo il made in Italy, ma è una cultura espressiva che risponde a una creatività sociale diffusa. Anche i Maestri (in particolare Bruno Munari) non consideravano il design una funzione del marketing, ma al contrario, ovvero l’industria applicata al design. Nell’autonomia del design rispetto alla cultura di marketing. Il sistema industriale in Italia è stato sempre caratterizzato da piccole e medie imprese, più flessibili al dialogo con i designer e i giovani sperimentatori. In altri Paesi, come Stati Uniti o Germania, c’è l’idea della programmazione del mercato, della produzione di serie, logiche che creano una rigidità che non si adatta al mutare del mercato e dei gusti. Il sistema industriale italiano paradossalmente essendo più debole ha permesso l’ibridazione di cultura del progetto e industriale, che è la definizione di design».
Una flessibilità della produzione industriale italiana che è servita in periodi di crisi come questi?
«È servito negli anni Settanta con il mercati di nicchia e non più di massa, con le serie numerate, non di massa. Nella crisi queste risorse possono essere uno strumento importante. Oggi l’Italia a causa delle sue caratteristiche è diventato il laboratorio internazionale, dove operano tutti i maggiori designer internazionale. C’è meno spazio per i giovani».
Perché ci sono alcuni designer che vengono chiamati sempre, e sempre dalle stesse aziende?
«Domanda difficile. Per rispondere si dovrebbe analizzare caso per caso. È vero che i designer diventano parte dell’identità di un marchio, e quindi è inevitabile che i due vadano a braccetto. I designer non sono una specie in via d’estinzione, non sono dei panda, quindi devono trottare alle leggi di mercato. C’è da dire però che i nomi girano, oggi più di prima prima. Ma è una fase. Cambierà anche questo».
C’è qualche nome che apprezza o "disprezza"?
«Quello che disprezzo non lo dico. In genere, come si vede dal volume, ho avuto grande rapporto con i colleghi. Tra i giovani designer, Giovanni Levanti, che ha partecipato alla Fabbrica del vapore».
Qual è la differenza tra oggi e ieri?
«Totale. La generazione di oggi si muove con delle logiche nuove: disinteresse alle nuove tecnologie, non considerate un mito, approccio su temi apparentemente secondari, la volontà di non cercare soluzione definitive».
Secondo l’Adi, il design consiste in una progettazione culturalmente consapevole. Ma è sempre così consapevole?
«Dipende: le culture sono tante, la cultura può essere il decorativismo come la qualità senza tempo di Giorgetti. In ogni modo, il design è la capacità di utilizzare le tecnologie per le capacità espressive, e usare la cultura espressiva per la capacità tecnologica. Il design deve essere legato all’idea».
A cosa doveva rispondere il design in passato? E oggi?
«Prima il design doveva rispondere alla necessità sociale di avere prodotti di serie, esteticamente adeguati, espressivi. Oggi invece deve rispondere all’urgenza di innovazione del mercato in evoluzione. La scuola non è più organizzata per insegnare le metodologie del progetto, ma per formare un progettista in grado di fare un percorso da autodidatta».
Quale sarà il prossimo capitolo del design?
«Non lo so, resto ad osservare».
Infine, il design al femminile sta soppiantando la “professione al testosterone”?
«Sì, forse il design al femminile potrebbe essere un nuovo capitolo della storia del design. Ma attenzione non stiamo parlando di femminismo. Il design al femminile rigenera il design, lo rivitalizza. C’è bisogno però che le “signorine” si diano da fare. Come docente al Politecnico di Milano, affermo che la presenza al femminile è cospicua nelle facoltà, ed è molto importante. Il design al femminile è sensibilità e intelligenza, contamina il design al maschile. Le donne hanno anche il coraggio di sbagliare. Si mettono alla prova su temi difficili. I ragazzi sono più prudenti, meno liberi di osare.
Una designer donna che ammiro? Raffaella Mangiarotti, raffinata».
Nella foto in alto all’articolo, Ugo La Pietra